La vittoria di Arisa ha il sapore del giusto riconoscimento a una cantante che, bene o male, ha legato le sorti della propria carriera al palco dell’Ariston fin dall’esordio nel 2009. Ma a conti fatti, oltre a lei e al rapper napoletano Rocco Hunt, da questo Festival di Sanremo 2014 non è uscito vincitore nessuno: è stato un Sanremo fallimentare sotto il profilo degli ascolti – la media di 9.347.000 telespettatori che hanno assistito alla serata finale segna un crollo totale rispetto ai 12.997.000 dello scorso anno – e rovinoso dal punto di vista spettacolare.
Non ne è uscita vincitrice Luciana Littizzetto, la cui noia e insofferenza è aumentata esponenzialmente man mano che Sanremo andava avanti, tanto da limitare gli interventi e le interazioni con Fazio al minimo indispensabile. Non ne è uscito vincitore lo stesso Fabio Fazio, il cui buonismo parrocchiale ha dilagato senza argini in un mare di “bellissimo” e “meraviglioso”.
Soprattutto non ne è uscita vincitrice una direzione artistica mirabolante sulla carta (Michele Serra, Mauro Pagani…), ma che si è dimostrata incapace di conferire il minimo sindacale di ritmo e vivacità al carrozzone sanremese. Un carrozzone mai così funebre e nostalgicamente celebrativo, talmente perso nella contemplazione delle gloriose antichità televisive da aver reciso ogni legame non solo col presente, ma pure col passato prossimo. Con l’aggravante della noia e della mancanza di sorprese, senza neanche il trash involontario della gestione Morandi, o la studiata naiveté di Antonella Clerici.
Il (brutto e banale) monologo di Maurizio Crozza durante la finale è la perfetta metafora di questo Sanremo 2014: una soporifera parentesi tirata per le lunghe che nel terrore di creare fastidio a chicchessia (da Matteo Renzi alle associazioni dei disabili…) cade nell’ecumenica commemorazione del passato. E alla fine, in mezzo alla parata di vecchissime glorie più o meno avvizzite che si sono avvicendate sul palco, gli unici momenti che meritano di essere ricordati sono le esibizioni degli ospiti musicali internazionali, da Rufus Wainwright a Damien Rice, da Paolo Nutini a Stromae: unici vitali legami col presente in mezzo alla generale sensazione di necrofilia.